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Premio Lezioni di Design: Giorgia Lupi



Per l’edizione 2016, le attività di Brera Design District ruotano attorno al tema “Progettare è ascoltare”, un tema che sottolinea la forza didattica e formativa del buon design. Se è vero che un bravo insegnante è colui che riesce ad immaginare le persone per quello che ancora non sono, un bravo designer (di qualsiasi disciplina) riesce a mostrarci il mondo come sarà.
E in questo contesto, ricerca e ascolto sono legati a doppio filo. Per questo motivo il premio Lezioni di Design 2016 è stato attribuito a Giorgia Lupi, data designer italiana che da anni opera a New York. Fondatrice di Accurat, Giorgia rappresenta la nuova generazione di designer capaci di superare il concetto classico di “design del prodotto” per arrivare all’elaborazione di materiali puramente immateriali.

 


Intervista a cura di Paolo Ferrarini

Giorgia Lupi è un’information designer italiana, co-fondatrice e design-director di Accurat, uno studio di ricerca dati innovativa, attento al design. Abita a Brooklyn, disegna, ricerca, scrive. Il suo lavoro attraversa spesso il divario tra digitale e stampato, esplorando modelli visuali e metafore per rappresentare storie piene di dati. Nel suo lavoro, Giorgia sfida l’impersonalità che i dati comunicano,la progettazione di narrazioni visive che raccontano i numeri in base a ciò che rappresentano: conoscenze, comportamenti, persone.

Per fare il tuo lavoro, si deve “ascoltare” il mondo, bisogna sintonizzarsi a tempo pieno su una modalità di ascolto. Come riesci a farlo? È qualcosa che accade spontaneamente o c’è una maniera specifica per riuscirci?
Sì, assolutamente. Per essere un data visualization designer bisogna trovare nuovi modi di attirare le persone attraverso nuovi linguaggi e nuove soluzioni che accanto al fatto di essere funzionali, precise e adeguate devono essere magnetiche e sorprendenti. Proprio in questo senso credo che imparare ad “ascoltare virtualmente” il mondo sia essenziale: imparare come vedere è essenziale per imparare come fare design. Imparare a vedere e a capire quali sono le qualità estetiche che attirano i nostri occhi in merito a ciò che ci circonda, è essenziale per i creatori di qualsivoglia tipo. Ciò che faccio ogni volta in cui comincio qualsiasi tipo di progetto è concedere a me stessa di essere veramente ispirata da ciò che mi circonda. Cercare degli indizi in contesti insoliti è una buona maniera per scoprire e setacciare le qualità estetiche di tutte le cose che mi piacciono, come fonte continua di ispirazione, e per essere in grado di astrarle e di introdurle come principi basilari e linee guida nel mio lavoro. Facendo soltanto attenzione a ciò che accade nella nostra mente quando guardiamo il mondo intorno a noi, possiamo sforzarci di imparare come vedere e come riconoscere gli elementi qualitativi e riportarli mentre creiamo qualcosa di nuovo.

Sostieni di essere particolarmente attratta da “forme comuni” di visualizzazione. Qual è la relazione tra familiarità e innovazione nel tuo lavoro?
Ho capito di essere ispirata soprattutto da linguaggi visivi che sono in qualche modo già convenzionali, alla cui estetica è familiare per la nostra mente: se una serie di norme estetiche per le forme, i colori e la composizione spaziale funzionano in un contesto che osservo, credo che ci dovrebbe essere una modalità di applicarle al design al quale sto lavorando. I contesti visivi ai quali mi riferisco sono arte astratta, ma anche l’estetica ripetitiva delle note musicali, specialmente della musica contemporanea, o il sistema di stratificazione dei disegni in architettura o addirittura le forme e gli elementi degli oggetti e degli elementi naturali: ambienti visivi ai quali le nostre menti possono fare riferimento senza necessariamente coglierli appieno. Definirei poi il design di successo come quello in grado di equilibrare gli aspetti convenzionali (ad esempio le forme con le quali le nostre menti hanno già familiarità) e gli aspetti nuovi: nuovi elementi che possono coinvolgere e dare piacere alle persone nella speranza che si tratterrà sulle nostre visualizzazioni un pochino di più, e nella speranza di poter contribuire allo sviluppo del dibattito nel nostro ambito.

Potresti essere definita artigiana dei dati? Qual è il ruolo del lavoro manuale nel tuo ambito?
Mi piace! Infatti lavoro con i dati in una maniera estremamente manuale. Quando lavoro su qualsiasi tipo di progetto di visualizzazione di dati, produco tonnellate di schizzi addirittura prima di inserire i dati in qualsiasi tipo di strumento che può restituirmeli in un grafico. Produco degli schizzi per comprendere come organizzare i dati a livello di spazio, per definire sia l’architettura della composizione che gli aspetti visivi dei minimi dettagli. Ho sempre utilizzato questo processo laborioso come un modo di implicarmi con i dati prima di creare le visualizzazioni digitali finali. Per molti lettori, il termine “data visualization” potrebbe essere associato con competenze nell’ambito della programmazione pesante, software complessi e tanti numeri per la gran parte, ma, che lo si creda o no, tantissimi dei designer della visualizzazioni di dati utilizzano gli schizzi di vecchio stampo e le tecniche di disegno su foglio come loro strumento principale di lavoro: producono degli schizzi con i dati per capire ciò che è presente nel numero e come organizzare quelle quantità in maniera visiva per trarne un significato.

Molte persone temono che l’eccesso di dati possa uccidere la spontaneità, ma tu ha detto che i dati possono aiutarci a vivere una vita migliore. Com’è possibile?
Per il progetto Dear Data, ho impiegato più di un anno a raccogliere dei dati personali su diverse tematiche (le mie ossessioni, le mie routine, i miei desideri, i miei pensieri negativi, i miei pensieri positivi, un po’ della mia relazione con il mio partner…). Ma invece di fare affidamento su una app di auto-rilevamento digitale, ho raccolto i dati a livello manuale, aggiungendo il contesto di ognuno dei miei log, e pertanto rendendoli davvero personali, soltanto su di me. Nel momento in cui stanno proliferando le app di auto-rilevamento e il numero di dati personali che possiamo raccogliere su di noi aumenta nel tempo, dovremmo aggiungere significato in maniera attiva e contestuale al nostro rilevamento. Non dovremmo aspettarci che la app ci dica qualcosa su di noi senza sforzarci in maniera attiva, dobbiamo seriamente implicarci per dare un senso ai nostri dati. Mi piace dire che i dati possono essere uno stato d’animo, che possono essere un atteggiamento più che una questione di competenze e di strumenti, e da ultimo che i dati possono aiutarci a diventare più umani e connetterci con noi stessi a un livello più profondo, se indossiamo le lenti giuste per vederli.

Qual è il ruolo dell’arte nel tuo lavoro? Come puoi combinate un tocco artistico e poetico con i freddi dati?
Personalmente vedo la visualizzazione dei dati come una combinazione del mio lato “artistico” (o, per meglio dire, emozionale!) e del mio lato razionale e scientifico. Ho una formazione in architettura e la mia mente ha bisogno di strutturare e di organizzare le informazioni, ma i miei occhi e i mio spirito hanno bisogno di vedere e di inventare delle visualizzazioni inattese in ogni momento, credo. Mi piace disegnare artefatti visivi che hanno un senso logico e strutturale. Non provo piacere dal produrre design grafici fini a se stessi, al contrario, mi piace formare modi visivi di rappresentare i rigorosi parametri quantitativi. Ciò che mi spinge in quello che faccio è la sovrapposizione dell’analisi e dell’intuizione, tra logica e bellezza, tra numeri ed immagini.

Se fossi un’insegnante, cosa insegneresti?
La matematica dell’arte o l’arte della matematica.


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